Il processo di ossidazione del vino è un fenomeno non semplice da gestire. L’ossigeno è sicuramente importante per la vinificazione se presente in piccole quantità, ma è importante calibrarne l’apporto per evitare fenomeni ossidativi.

Le modalità di consumo del vino oggi sono molto diverse rispetto a qualche decennio fa, perché le bottiglie italiane raggiungono tutto il mondo e anche i vini bianchi freschi possono superare i due anni di presenza su scaffale.

Un vino che resta per lungo tempo in bottiglia deve essere stabilizzato dal punto di vista microbiologico e ossidativo.

Per molti vini bianchi la vita in bottiglia è relativamente limitata, oltre un determinato tempo i fenomeni ossidativi sono i principali responsabili del deterioramento del prodotto, ciò che il produttore vuole evitare è che questo fenomeno avvenga prima di quanto stabilito.

Come avviene l’ossidazione del vino

L’ossidazione del vino è dovuta alla presenza di tre sostanze che interagiscono nel mosto o nel vino:

  • Ossigeno
  • Polifenoli
  • Catalizzatori

I polifenoli che entrano in gioco quando si parla di ossidazione sono principalmente gli orto-difenoli, che contribuiscono all’imbrunimento del vino.

I catalizzatori possono essere sia di origine chimica come la presenza di ferro e rame, sia di origine biologica come l’enzima polifenolossidasi (di natura endogena).

L’imbrunimento del vino dipende quindi da diversi fattori che vanno tenuti in considerazione lungo tutto il processo di vinificazione.

Vinificazione, ossidazione e fermentazione malolattica

La scarsità o l’eccesso di ossigeno nella vinificazione e nell’imbottigliamento sono molto pericolosi e non facili da gestire. La riduzione e l’ossidazione influiscono sulla così detta shelf life della bottiglia, ma anche sul potenziale sensoriale del vino

Un vino ossidato dà sentori marsalati e si presenta meno chiaro, quindi disattendendo ciò che il consumatore ricerca in tale prodotto: freschezza, sentori fruttati e floreali, nitidezza.

Ottenere vini bianchi longevi che conservino freschezza e acquisiscano complessità è una sfida per chi fa l’enologo, ma esistono metodi e strumenti che possono aiutare in questo difficile compito.

Nel processo di vinificazione il problema di chi vuole ottenere un vino bianco che abbia come caratteristica più evidente la freschezza, è quello di contrastare sia l’ossidazione, sia la fermentazione malolattica spontanea.

Una sostanza molto utilizzata in passato per evitare l’attacco dell’ossigeno era l’anidride solforosa. Negli ultimi anni l’uso di questa sostanza nei vini è diminuita per venire incontro alle nuove esigenze dei consumatori che preferiscono prodotti più salubri o comunque a moderato contenuto di solforosa.

Il diossido di zolfo, altro modo di chiamare l’anidride solforosa (SO2), è una molecola nociva per l’organismo umano e quindi per legge sono posti i seguenti limiti:

  • vini bianchi 200 mg/l
  • vini rossi 150 mg/l

Utilizzata sia sul mosto sia nel vino, l’anidride solforosa garantisce un’ottima azione antiossidante e antisettica, inoltre inibisce enzimi come la Laccasi e le Tirosinasi.

Attualmente sono in commercio sostanze più naturali a base di chitosano, colla di pesce e PVPP, che proteggono efficacemente i vini bianchi dall’ossidazione e dall’azione della fermentazione malolattica, preservandone la freschezza.

Questi prodotti policomposti sono studiati proprio per ridurre la componente polifenolica ossidabile e al tempo stesso limitare o abbattere le cariche batteri responsabili della fermentazione malolattica.

Il tema della stabilità ossidativa e microbiologica dei vini bianchi può essere approfondito per conoscere ancora meglio prove e test fatti da Enologica Vason, azienda che è sempre al lavoro per migliorare il settore dell’enologia.

Di Editore